Questa interlocuzione tra padre Balducci e il sociologo francese
Edgar Morin, a cui do il benvenuto, si svolge la sera del 17
gennaio del 1991, primo giorno della guerra nel Golfo. E'
necessario più che mai rispondere con la parola al mostro della
guerra, tentare cioè di discernere quell'uccello di Minerva che
vola al crepuscolo, una figura dell'Occidente che Morin ama e che
incarna una prospettiva così diversa dal volo notturno degli
uccelli tecnologici, carichi di volontà di dominio, nel cielo di
Baghdad. L'Occidente può riflettere tutte le sue contraddizioni
in questa vicenda in un'area che è incrocio tra modrnità e
fondamentalismo, tra Nord e Sud, tra laicità politica e
integralismo politico-religioso, tra mondo islamico e mondo
cristiano, tra nazionalismi giovani e progetti
neo-coloniali globali.
Un aforisma caro a Morin e
tratto da Holderlin: "Là dove cresce il pericolo cresce
anche ciò che salva". Avrà occasione di giustificare questa
speranza apocalittica che noi condividiamo. Si è convenuto di
assegnare a lui più tempo nell'ora in programma; è consenziente
padre Balducci il cui pensiero è ormai familiare al pubblico che
lo segue in questi appuntamenti da oltre tre anni.
Qualche
cenno su Edgar Morin, molto fuggevole ma necessario. Il tema
fondamentale della sua opera è da tempo la trasformazione della
complessità planetaria di tutto ciò che è umano in dimensione
politica. Una società, dice, può progredire in complessità solo
se progredisce in solidarietà, la solidarietà non imposta ma
interiormente sentita e vissuta come fraternità. Egli sostiene
che "la presa di coscienza del problema della solidarietà
deve condurre alla volontà - cito - di farlo uscire dai
bassifondi infrapolitici nei quali è rimosso, e di farne un
problema centrale". E' il potere politico uno dei luoghi che
egli vede come luoghi di frattura, oggi.
Il tema di questa
sera, 'Ripensare la politica', si accende di bagliori tragici di
urgenze politiche. In questa terra di nessuno che è diventata la
politica gli interrogativi che poniamo assumono un carattere
estremo. Il primo: quali indicazioni può darci la crisi del Golfo
e la guerra attuale per la trasformazione della pratica politica e
della scienza politica? Come trasformare la solidarietà da
principio etico a scienza politica?
Il secondo: se il
diritto non può confondersi con la spada - una spada che potrebbe
essere atomica - con quali mezzi scientifici, etici, simbolici si
può pensare di raggiungere la fondazione di un nuovo diritto che
sia adeguato alla coscienza e alla complessità strutturale
dell'uomo planetario, più di quanto lo sia quello fondato, come
sua fonte, come suo soggetto privilegiato, sulla sovranità
nazionale? Con la fine dell'equilibrio bipolare molti hanno
l'impressione che l'egemonia globale di una sola grande potenza
stia scatenando una anarchia giuridica nel senso che il criterio
costitutivo delle relazioni non è tanto la regola giuridica o
morale che si dice di voler intronizzare ma la pura forza.
Terzo:
come produrre - tema che emerge nelle più recenti riflessioni di
Edgar Morin - un deperimento consistente dello stato nazionale per
costruire un soggetto politico mondiale, un soggetto politico cioè
idoneo al governo effettivo di problemi ormai irriducibili alla
scala regionale? Cito fra alcuni maggiori la tutela ambientale,
la questione energetica, la sicurezza, la distruzione egualitaria
delle risorse materiali della terra.
Sono temi emergenti
nella dottrina di Morin, nella riflessione di padre Balducci,
nella coscienza collettiva di oggi. Ringrazio Morin di aver
accettato di venire da Parigi per riflettere con noi su questo
nostro futuro ed ho l'onore di dargli la parola.
Giancarlo Zizola
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di Patrizia Lotti
10 Ottobre 2003
Allora, ripensare ... prima di tutto questo titolo: "Ripensare
la politica". E' evidentemente un tema riflessivo che avevamo
scelto chiaramente senza prevedere gli eventi ma che si trova qui
posto il primo giorno di una guerra che è un problema e un tema
di vita e di morte. In che modo possiamo far incontrare questi due
temi? Voglio cercare di mostrare di farli incontrare in modo non
artificiale.
Prima di tutto "Ripensare la politica"
implica porsi in funzione del problema seguente: "che cosa
possiamo sperare?". Questo problema si pone in modo quasi
disperato quando si è in guerra, ma è una questione che viene
posta fin dalla Rivoluzione francese, da Kant: che cosa possiamo
sperare? Sperare sulla terra. E per cercare di trattare questa
questione bisogna effettivamente riflettere di nuovo sull'uomo:
che cos'è l'uomo nella vita? che cos'è l'uomo nel mondo?
Intendiamoci, non tratterò qui questa parte della riflessione,
tratterò invece il secondo aspetto: quello della riflessione sul
nostro mondo umano. E questa riflessione deve partire dal fatto
che dalla scoperta dell'America siamo entrati nell'era
planetaria.
Dalla scoperta dell'America il virus, il
microbo della tubercolosi europea si è diffuso tra le popolazioni
indiane e quello della sifilide è giunto in Europa e si è
spinto, in capo a quindici anni, fino in Cina. C'è stata una
prima unificazione microbica a scapito degli umani in ambo le
parti. E poi, lo sapete, la patata, il granturco, il pomodoro sono
arrivati in Europa e si sono impiantati, mentre il cavallo, il
grano sono giunti in America. L'Europa è diventata 'tabagica',
l'America è diventata 'alcolica' e poi attraverso i secoli e
soprattutto attraverso la colonizzazione, in modo dunque brutale e
dominatore, si è giunti all'unificazione del mondo.
In
questo secolo ci sono state guerre, guerre mondiali, il che
significa che l'era planetaria, l'unificazione si attua
principalmente nel conflitto e nell'atrocità. In altri termini
siamo tutti solidali, ogni fatto che accade alla Borsa di New York
o a Bagdad si ripercuote in tutto il mondo. Siamo tutti solidali,
ogni mattina ciascuno di noi prende un tè che viene dall'India o
un caffè che proviene dalla Colombia, oppure indossa un maglione
fatto a Taiwan con una maglietta di cotone egiziana o indiana; si
ascoltano le informazioni su una radio fabbricata in Giappone e
tutto il giorno, in qualche modo, viviamo senza saperlo
una vita planetaria. Siamo come un momento di un
ologramma dove ciascuno porta con sé il microcosmo. Ma malgrado
tutto ciò, non abbiamo il senso di questa solidarietà e diciamo
che la tragedia sta nel fatto che l'umanità non riesce a nascere
come umanità. Tuttavia abbiamo raggiunto qualche presa di
coscienza capitale durante gli ultimi vent'anni. La presa di
coscienza ecologica non è soltanto una presa di coscienza locale,
ma è la consapevolezza che la biosfera, il nostro ambiente
vitale, è un qualcosa che la crescita industriale incontrollata
tende a distruggere e questa distruzione tende a sua volta a
distruggerci. Abbiamo preso coscienza che la terra stessa è una
sorta di sistema con la sua autonomia, la sua organizzazione, la
sua propria vita.
Ci siamo resi conto, grazie allo sviluppo
delle ricerche preistoriche, che c'è una radice unica degli
uomini e che la loro dispersione attraverso lingue e culture è un
fatto secondo, che la differenza non è un fenomeno principale e,
attraverso le diverse culture e le diverse lingue, si sono
manifestate molteplici ricchezze. Ma oggi dobbiamo sapere
che questa diaspora è terminata, che è giunto il momento della
comunicazione e della riconciliazione, ma sappiamo
disgraziatamente che la vera comunicazione non si realizza tramite
le telecomunicazioni.
Dunque abbiamo ormai
tutte le ragioni convergenti per considerarci cittadini non solo
del nostro paese o non solo nel nostro continente, ma cittadini
della Terra-Patria. Ma, per diventare tali, per riconoscere questo
fatto della Terra-Patria, si affaccia un'esigenza fondamentale:
bisogna superare il potere assoluto dello Stato-nazione; come
nell'89 la Rivoluzione francese aveva abolito il potere assoluto
del re e cambiato sovrano, allo stesso modo oggi bisogna
distruggere non le nazioni, non gli stati, ma il loro assolutismo.
Capiamo che sotto gli stati esistono delle diversità che vogliono
vivere ed avere la loro autonomia, ma comprendiamo anche che al di
sopra dello stato ci sono realtà che possono essere trattate
e pericoli che possono essere affrontati soltanto su un piano
comune. Ben inteso, questa concezione della Terra-Patria non deve
essere una concezione omogeneizzante, quanto una concezione che
non solo rispetti ma cerchi di fortificare la diversità umana.
Sapete tutti che la diversità è il tesoro della biologia
e della biosfera, che la diversità è il tesoro dell'umanità
culturale e che la diversità di idee, di opinioni è il tesoro
della vita democratica. Ebbene, queste idee generali
valgono per capire il problema del Medio Oriente.
Il
problema del Medio Oriente ci appare di una estrema singolarità e
talmente diverso da noi, talmente lontano e strano che non vi
scorgiamo niente in comune con noi. Ma, di fatto, la singolarità
del Medio Oriente deriva principalmente dall'incontro esplosivo di
grandi correnti planetarie che raggiungono in Medio Oriente il
loro massimo antagonismo: la corrente della civiltà occidentale
e, nello stesso tempo, quella delle grandi civiltà orientali, in
Medio Oriente principalmente islamiche. E' l'incontro fra il Nord
e il Sud. Il Medio Oriente non è il Sud, non è il Terzo Mondo,
non è un paese dell'Africa e nemmeno il Nord. E' un qualcosa di
ibrido fra il Nord e il Sud. E' l'incontro disgraziatamente
antagonista delle tre grandi religioni del Libro: Islam,
Cristianesimo, Giudaismo con interferenze atroci come tutti
sappiamo. E' l'incontro tra le grandi correnti laiche, e le grandi
correnti religiose. E' l'incontro tra la modernità ed il
fondamentalismo. E, a questo punto, occorre capire un po' questo
fenomeno del fondamentalismo, così potente in questi
paesi.
Quali sono i due elementi che permettono di capire
il fondamentalismo, cioè il ritorno, la volontà di tornare alla
tradizione e alle origini prime di ciò che costituisce l'identità
religiosa? Per l'appunto ecco dei paesi di vecchia civiltà nei
quali è dilagata la civiltà occidentale, le tecniche, i modi di
vita, cioè quella tendenza che tenta di omogeneizzare il pianeta
secondo il nostro modello. E allora la difesa dell'identità è
portata ad un rientro, ad una ritrazione e si ha l'impressione che
si possa salvare l'identità solo attraverso questo ritorno alle
origini fondamentali.
Ma c'è una seconda spiegazione a
questo fondamentalismo sviluppatosi nel corso degli ultimi
vent'anni. Il fatto è che in questi paesi ci sono stati dei
potenti movimenti rivoluzionari; bisogna pensare che il Baath, il
famoso Baath (in Iraq, Saddam Hussein ne è il leader) era un
movimento rivoluzionario e laico e che c'è stata una speranza di
uscire dall'arretratezza, di cambiare attraverso la rivoluzione.
Ora c'è stata una decadenza, una perdita nella speranza della
rivoluzione, vale a dire una perdita di futuro, di un futuro
radioso, della promessa di futuro. Questa perdita del futuro la
viviamo tutti, tutti, anche qui in un altro mondo: il cosiddetto
futuro radioso è crollato totalmente in URSS e nelle democrazie
popolari. Per noi il futuro, il futuro promesso dalla scienza, dal
progresso, dalla ragione, ebbene non è più garantito, niente ci
assicura che il futuro sarà meglio del presente. E quando il
futuro crolla che cosa rimane? O resta il presente, cioè dove si
vive alla giornata senza guardare più in là del proprio naso,
oppure cerchiamo di aggrapparci al passato. Il fondamentalismo si
spiega anche con la perdita del futuro. Dunque questa opposizione
modernità-fondamentalismo così violenta, così virulenta in
Medio Oriente, è tuttavia un problema che si pone effettivamente
in tutte le culture.
E tutte queste opposizioni si situano
in una regione in cui ci sono dei nazionalismi esacerbati perché
si tratta di stati recenti nati dalla decomposizione dell'impero
ottomano le cui frontiere sono state tracciate in modo arbitrario
dai colonizzatori che hanno esercitato il protettorato tra le due
guerre, ed ognuno di questi stati ingloba o opprime una etnia, una
religione. Per di più, questi stati combattono l'uno contro
l'altro nell'intento di rapprensentare il leader arabo con in
aggiunta la presenza di quello stato che appare loro incistato
dall'esterno, lo stato di Israele.
Dunque in queste
condizioni comprendiamo che il Medio Oriente nella sua stessa
singolarità è il microcosmo, la parte che contiene il tutto del
nostro mondo, sono i nostri problemi ma esasperati e in un certo
senso è il nostro specchio. E' dunque una visione estremamente
semplificatrice quella di vedere soltanto la singolarità del
Medio Oriente invece di renderci conto che esso riguarda anche
noi. Riguarda anche noi, certo, perché è una polveriera, una
polveriera può far saltare la terra, ma è la polveriera del
nostro mondo con tutti gli antagonismi che minacciano il nostro
futuro. Penso che essere capaci di considerare questo problema in
questo modo complesso significhi essere nello stesso tempo più
capaci di considerare i nostri propri problemi. E se fossimo stati
capaci di esaminarli, vale a dire se l'ONU, che aveva acquisito
una certa forza dopo l'affaire del Kuwait, si fosse orientato in
questa prospettiva, allora avremmo cominciato ad affrontare non
solo quei problemi ma anche i nostri problemi planetari.
C'è
un secondo elemento di complessità nel Medio Oriente. In Medio
Oriente i problemi non sono separabili, ognuno rimanda all'altro.
Se consideriamo che Saddam Hussein ha compiuto un atto di rapina
in Kuwait e che per di più domina un popolo che non ha il diritto
di disporre di se stesso, possiamo dire che la Siria ha compiuto
un atto di rapina, in Libano, molto più abile e che Israele
domina il popolo palestinese che vuole avere il suo stato per non
parlare poi del problema dei Kurdi divisi fra quattro stati. Non
si può esaminare un elemento senza esaminare gli altri. C'è un
superamento in ogni paese e possiamo analizzare questo superamento
solo se lo si tratta in modo globale. Se, in più, pensate a
Gerusalemme, città tre volte santa per tre ragioni, ebbene
proprio Gerusalemme dovrebbe, in questa tragica vicenda, svolgere
il ruolo di questa unità, di città libera, di terra aperta. In
queste condizioni vediamo chiaramente che questo problema è
inseparabile ed è per questo, credo, che il rifiuto del linkage,
come ha detto il segretario di stato Backer, cioè di associare il
ritiro dal Kuwait agli altri problemi, cioè il rifiuto di
associare il ritiro dal Kuwait di Saddam Hussein all'esame di una
Conferenza Internazionale sul Medio Oriente, questo rifiuto, a mio
parere, può condurre soltanto all'arbitrario. Forse è questo
rifiuto che ci ha portati all'attuale guerra. Se il problema
avesse potuto essere posto due mesi fa forse (non lo so, non
possiamo predire adesso retrospettivamente ciò che non è
successo), ma sembra risultare da tutti i dati, sarebbe stata la
soluzione che avrebbe potuto essere accettata. E adesso siamo in
una condizione in cui la complessità politica ci obbliga a
pensare che la soluzione militare può risolvere alcuni problemi,
può creare problemi più gravi di quelli che risolve e
soprattutto non è la guerra che risolverà i problemi
fondamentali del Medio Oriente. E' per questo che in questa
attuale situazione nella quale la guerra è cominciata, processo
che ormai non possiamo più controllare tramite le normali vie
politiche, dobbiamo mantenere questa esigenza di qualunque cosa
accada, se la guerra termina vittoriosamente e rapidamente (è
evidentemente auspicabile che una guerra finisca presto), quali
che siano le ipotesi bisogna trattare in una conferenza
internazionale questo problema del Medio Oriente. Credo di
essermi dilungato un po' troppo, il mio tempo per parlare
diminuisce come una pelle di zigrino ..., ciò che vorrei dire è
che oggi quando pensiamo questa guerra, dobbiamo fare le ipotesi
più differenti perché non è detto che il problema rimarrà
chiuso nel contesto militare-strategico dell'Iraq e del Kuwait.
Immaginate ... è soltanto un'ipotesi ma in fondo è così che
hanno luogo i grandi eventi, sempre inaspettatamente e
improvvisamente perché non si dà ascolto alle ipotesi. Supponete
effettivamente che in diversi paesi d'Europa si scatenino degli
attentati terroristici che colpiscano alla cieca alcune
popolazioni civili. In questi paesi d'Europa c'è una numerosa
popolazione di immigrati; penso alla Francia, alla Germania, ad
altri paesi. Subito si svilupperà e si rafforzerà un sentimento
di xenofobia e di razzismo il quale è già molto presente e sarà
ancor più virulento. Se in più c'è crisi economica, abbiamo
tutte le condizioni per una gigantesca regressione della
democrazia nei nostri paesi perché non dobbiamo credere alla
visione ingenua e alla giornata che abbiamo delle democrazie in
tasca, come un bene garantito ... Credo che "ripensare
la politica" sia rompere un pensiero unidimensionale, un
pensiero specializzato, un pensiero che allontana sempre il
contesto. Perché è questo ciò su cui voglio terminare.
Un pensiero politico normale prende i problemi isolatamente gli
uni dagli altri. E' disgraziatamente Cartesio ad avere detto che
il modo di risolvere una difficoltà consiste nel separare il
problema 'in pezzettini' e di risolverli uno dopo l'altro. Facendo
così, non si risolve niente! Al contrario, un altro
francese contemporaneo di Cartesio, Pascal, diceva in modo
profondo: tutte le cose sono causate e causanti, sono tutte unite
da un legame che unisce imperccettibilmente le più lontane le une
dalle altre. Ed è per questo che considero impossibile conoscere
le parti se non conosco il tutto e considero impossibile conoscere
il tutto senza conoscere bene le parti. E' di questo tipo di
pensiero che abbiamo bisogno in politica e, nel caso specifico,
significa che tutto deve essere riallacciato al contesto cui si
riferisce. Questo primo abbozzo parziale che vi ho fatto significa
questo: certo, potete prendere il Kuwait, potete prendere l'Iraq,
ma bisogna collegarli al Medio Oriente. Certo potete prendere
l'Oriente e chiuderlo, ma occorre riallacciarlo alla nostra
situazione planetaria.
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